WIRED: la gentilezza con ChatGPT

"Ciao ChatGPT, per favore potresti fare una cosa per me?". Ogni volta che mi interfaccio con il Large language model di OpenAI per sbrigare qualche faccenda di lavoro (tradurre una frase, completare un sottotitolo o modificare un passaggio testuale che non mi convince), mi viene istintivamente, senza pensarci, da essere gentile con lui (nella mia mente, ChatGPT è di genere maschile).

Molto probabilmente, succede la stessa cosa anche a voi. Per quanto non ci siano ancora studi in materia, nella mia esperienza personale non ho ancora conosciuto una persona a cui non capiti con frequenza di chiedere "per favore" a ChatGPT o di ringraziarlo per il lavoro svolto. È un elemento confermato anche da un sondaggio informale – quindi senza valore statistico – recentemente condotto su X e secondo il quale circa il 70% delle persone trova almeno "abbastanza difficile" essere maleducati con ChatGPT, mentre solo il 16% lo trova "abbastanza facile" (il restante 14% non lo utilizza).

Ma per quale ragione ci sentiamo in dovere di essere gentili con un software, che ovviamente è privo di emozioni, non è in grado di offendersi e non ha nemmeno la più pallida idea del fatto che ci stiamo comportando con lui in maniera garbata? Se si vanno a spulciare le discussioni a riguardo presenti su Reddit, una delle risposte che compare con maggiore frequenza suona più o meno così: "Visto che un giorno diventeranno coscienti e si trasformeranno nei nostri padroni, spero che le intelligenze artificiali si ricorderanno di chi è stato gentile con loro".

Ovviamente si tratta di battute: almeno per il tempo a venire, le intelligenze artificiali non prenderanno il controllo del pianeta. Tutto ciò non significa però che parlare gentilmente con un chatbot sia inutile: ci sono parecchi studi che confermano come trattare bene ChatGPT e i suoi simili – dirgli di "fare pure con calma" o addirittura di "pensare bene" prima di dare una risposta – permetta di ottenere risultati migliori (la spiegazione di questo strano fenomeno, che potete trovare qui, è purtroppo esclusivamente tecnica).

Buone maniere

Non tutti però sono d’accordo che comportarsi cordialmente con i chatbot e interagire con essi come se avessimo di fronte degli esseri umani sia la cosa giusta da fare: "Alcuni sostengono che trattare i chatbot come trattiamo le persone ci incoraggi ad antropomorfizzare dei software che non sono più senzienti di un tostapane", ha scritto il giornalista tecnologico David Futrelle sul suo blog, riportando anche il parere della ricercatrice Jenna Burrell, secondo cui "è molto più salutare pensare a essi come a degli strumenti che come a persone". E quindi, è il sottinteso, non comunicare con essi come se fossero delle persone.

Anche perché, ovviamente, i chatbot sono degli strumenti, privi di qualunque scintilla di umanità, coscienza o vera intelligenza. E allora perché facciamo così fatica a trattarli come tali? Perché ci viene così spontaneo ringraziarli o chiedere per favore? Una risposta proviene dagli studi che, in passato, hanno analizzato due altre particolarità del nostro rapporto con strumenti tecnologici, ovvero la difficoltà della maggior parte degli esseri umani a maltrattare dei robot e il rapporto empatico che si crea, per esempio, con il Roomba: l’aspirapolvere autonomo a cui molti proprietari donano anche un soprannome.

Probabilmente, tutto questo avviene perché ciò che è in grado di muoversi ci ricorda necessariamente qualcosa di vivo. In fondo, per la quasi totalità dell’esistenza dell’essere umano le cose sono andate esattamente così: tutto ciò che si muoveva era vivo. Di conseguenza è probabile che il nostro cervello si stia ancora adattando a trovarsi circondato da esseri artificiali.

La stessa conclusione a cui sono giunti questi studi si applica anche ai chatbot. Fino a pochissimo tempo fa (il primissimo rudimentale chatbot risale agli anni Sessanta), potevamo comunicare in linguaggio naturale solo ed esclusivamente con gli esseri umani. Di conseguenza, il nostro cervello ci stimola a comportarci con i chatbot come ci comportiamo con gli esseri umani, anche se razionalmente siamo consapevoli di quanto ciò sia bizzarro.

Non essere scortese

Questa tendenza all’educazione verso i nostri compagni artificiali potrebbe comunque avere anche degli importanti risvolti positivi. Nel suo saggio Massa e Potere, lo scrittore premio Nobel Elias Canetti spiegava come – semplificando – l’abitudine a dare comandi tendesse a rafforzarsi e autoalimentarsi. Non si può quindi escludere che se dessimo sempre secchi ordini a uno strumento come ChatGPT – con il quale molti di noi si rapportano su base quasi quotidiana – potremmo normalizzare questo tipo di comportamento, rischiando che si trasferisca anche nel nostro rapporto con gli esseri umani.

È per questo che – come si legge sull’Atlantic – molti genitori si dicono preoccupati quando sentono i loro figli impartire ordini urlati e continui ad Alexa, per il timore che si abituino anche con le persone a dare sbrigativi comandi invece di porre gentili richieste (purtroppo non ho trovato ricerche che analizzassero perché tendiamo a essere meno gentili con Alexa che con ChatGPT).

Insomma, comportarci con i chatbot come se fossero esseri umani non è solo abbastanza istintivo, ma potrebbe anche essere un’abitudine positiva. C’è però un altro aspetto della nostra relazione con le intelligenze artificiali che è stato meno studiato: il modo in cui la costante interazione con questi strumenti sta cambiando il nostro modo di comunicare.

Per esempio, nonostante ci sia sempre stato promesso che Alexa, Siri e altri strumenti simili avrebbero imparato a comunicare con noi in maniera sempre più colloquiale, la realtà è che siamo noi ad aver imparato a rivolgerci ad Alexa in maniera semplice, diretta, il più possibile priva di esitazioni e di ambiguità, pronunciando le parole nel modo più scandito possibile. Invece di essere Alexa ad aver arricchito la sua comprensione e il suo repertorio orale, siamo noi che abbiamo appiattito il nostro per renderlo più comprensibile a una macchina.

Sei prevedibile

Una dinamica simile sta avvenendo anche nella sfera della comunicazione scritta, a causa dell’utilizzo degli strumenti di auto-completamento del testo che ci suggeriscono – mentre per esempio digitiamo sullo smartphone – quale parola utilizzare. Una ricerca firmata da KC Arnold del Mit di Boston – in cui sono stati analizzati i testi di centinaia di persone, scritti con e senza l’ausilio dei suggerimenti automatici – mostra come chi sfrutta i sistemi di scrittura predittiva aumenti significativamente l’utilizzo di parole prevedibili.

Quando usano il suggeritore, le persone tendono infatti a impiegare parole più semplici e vaghe invece di termini meno comuni e più specifici. Non solo: nella stessa ricerca è stato evidenziato come chi utilizza il suggeritore tende a scrivere messaggi più brevi. Secondo i ricercatori, ciò avviene perché il suggeritore sprona a saltare alcune parole, offrendo subito in suggerimento quella successiva e abbreviando così il nostro testo. Un esempio legato al contesto: mentre ero in procinto di digitare "nostro" (nella riga qui sopra), il software avrebbe potuto suggerirmi di scrivere immediatamente "testo", saltando l’aggettivo possessivo e abbreviando così il messaggio.

La stessa dinamica potrebbe essere ulteriormente rafforzata dai sistemi di intelligenza artificiale – come il Copilot integrato in Microsoft Word – che ci suggeriscono non solo le parole da usare, ma ci segnalano anche di trasformare la frase dalla forma passiva alla forma attiva, di accorciare i paragrafi, di modificare porzioni di testo, di evitare alcune ripetizioni e molto altro ancora. Per quanto sia uno strumento che può sicuramente risultare comodo – soprattutto nelle comunicazioni professionali – la diffusione di questi assistenti virtuali non potrà che condurre a maggiore uniformità e appiattimento dei testi, andando almeno parzialmente a eliminare gli elementi stilistici, lessicali o grammaticali che caratterizzano la scrittura di ciascuno di noi.

Come già sta avvenendo in parecchi altri campi, l’impressione è insomma che non siamo noi che stiamo insegnando alle intelligenze artificiali a parlare o scrivere come esseri umani. Sono loro che stanno addestrando noi a comunicare come delle macchine.


Fonte: https://www.wired.it/article/chatgpt-chatbot-buone-maniere/?uID=0494c0de0aa24239d353c5ee8125218761495e0538d0fbc497b402aa9b83c107&utm_source=news&utm_campaign=daily_wired&utm_brand=wi&utm_mailing=WI_NEWS_Daily%25202024-03-22&utm_medium=email&utm_term=WI_NEWS_Daily


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